Home Cinema Film da vedere Allo Stensen con Marco Bellocchio nel 50° anniversario de “I pugni in...

Allo Stensen con Marco Bellocchio nel 50° anniversario de “I pugni in tasca”

[rating=5] Diplomato in regia a soli 24 anni, trasferitosi a Londra nel 1964, Marco Bellocchio ha un suo progetto da realizzare, per potersi far notare sulle scene cinematografiche, un’idea di film molto intimistico e, allo stesso tempo, “casalingo”. La priorità maggiore era quella di non spendere troppo, pur godendo di una vita, relativamente semplice e “privilegiata”, con solide basi in una famiglia borghese.

Nell’opera prima di debutto nel mondo del cinema si dovevano sintetizzare tutti i temi battenti e disperati che circondavano la propria, seppur giovane, esistenza.

Ed ecco nascere il primo lungometraggio “I pugni in tasca”, riproposto all’Istituto Stensen di Firenze nel restauro curato dalla Cineteca di Bologna. Uscito nel 1965, il film viene premiato, nello stesso anno, a Locarno ma, come sottolineato dal critico Giovanni Maria Rossi presente in sala, viene semi ignorato al Festival di Venezia.

Nell’attuale restauro viene inserita la scena dell’edipico bacio tra Ale e Giulia, l’incestuosa unione di fratello e sorella, precedentemente tagliato dallo stesso autore in fase di realizzazione, per paura della censura.

Marco Bellocchio, nel 50° anniversario dalla nascita della pellicola, ne sottolinea gli elementi vitali: dalla disperazione, alla crudeltà, alla trasfigurazione di quegli eventi e quelle vicende reali che ha vissuto, seppur non in prima persona.

I pugni in tasca

In ogni suo film c’è una parte di sé, quell’autobiografia che è permeata dalla cultura e dalla formazione, intesa a 360 gradi. Ed ecco, infatti, nello scorrere delle sequenze, il suo legame con Bobbio, con la Val Trebbia, con la casa materna, il suo amore per le tematiche affrontate già da Dostoevskij, Gide, Camus e, perchè no, da Artaud con il suo teatro della crudeltà.

Il fascino della pellicola è la sua contemporanea attualità. Come sostiene l’autore, rivedendo il film, non si deve parlare di memoria, di una creazione ormai passata, ma di una vera e propria ri-attualizzazione dell’opera.

L’attualità dei fatti e dei personaggi che si snodano e si intrecciano nel montaggio è, infatti, la base della qualità e della profonda originalità della creazione bellocchiana.

Il film sembra non avere connotati sociologici; l’elemento che gli dà forza è proprio l’astrattezza, l’atemporalità. Non ha tempo, non ha connotazione e, proprio per questo, sta in tutti i tempi della storia, passati, presenti e futuri.

Bellocchio porta in scena quella voglia di cambiamento che, quale fulcro personale, conduce ad una continua ricerca di sé, ad una costante scoperta di possibili miglioramenti di sé e del mondo circostante.

Ed ecco che, il soggetto del cambiamento non può che identificarsi con l’adolescenza e la giovinezza, età nelle quali la rabbia, condizione “da giovane” come la definisce Bellocchio, è l’essenza di chi, tentando di uscire dalle convenzioni scolastiche, accademiche, familiari e sociali, si scontra con un mondo che non gli piace e cerca di cambiarlo, facendosi portavoce primo del cambiamento.

Complicità, crudeltà, furore si intrecciano nelle strategie di Ale; dal matricidio al fratricidio, tutti sapientemente pianificati. Ma quei suoi pugni, che forse avrebbero voluto rovesciare l’apparente ordine della famiglia, rimangono in tasca, fino alla sua morte, quella morte che è verdiana “croce e delizia” della sua esistenza, volontà di conquista e, insieme, finale liberazione.

E la Musica, proprio quell’aria verdiana da “La traviata”, “Sempre libera degg’io folleggiare di gioia in gioia”, colloca sullo stesso piano Violetta e Ale, due folli, due deliranti ribelli, vaganti per i sentieri del piacere, in quei popolosi deserti che in Verdi si appellavano Parigi e in Bellocchio si appellano società del XX-XXI secolo.

Accanto ad Ale (Lou Castel) non si può dimenticare la vera e straordinaria interpretazione di Giulia (Paola Pitagora), diabolica, cinica, fredda e muta complice del fratello.

Le musiche di Ennio Morricone, presentato a Bellocchio dal suo produttore Enzo Doria, sono spalmate e calate nei momenti che egli stesso scelse dopo aver visto il lungometraggio muto e aver deciso di musicarlo. Si tratta di un Morricone rarefatto, cameristico, che si fa interprete del bellocchiano cambiamento, elaborandone una profonda e intima confessione musicale che ben fissa i pilastri concettuali del primo lungometraggio di Marco Bellocchio.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version
X