[rating=4] Montagne e deserti, ghiacci e popolazioni sperdute, il brivido di un’anima libera che guarda al mondo come se fosse il primo uomo sulla Terra, un novello Adamo che si aggira, zaino in spalla e obiettivo fotografico ben a fuoco, tra i luoghi più remoti del pianeta.
E’ con questo groviglio di sensazioni che si esce dai locali Expo dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, dopo aver ammirato la mostra “Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi”, curata da Alessandra Mauro e Angelo Ponta, in collaborazione con l’Archivio Bonatti e dedicata all’alpinista italiano scomparso a Roma nel 2011.
Opere fotografiche di grande formato sono accostate a note autografe dell’esploratore bergamasco, classe 1930, giustapposte a filmati e cimeli, simbolo di una vita di fatiche, avventure e soddisfazioni, trascorsa con l’immensità davanti agli occhi e, con dentro al cuore, la voglia di spingersi all’aldilà delle Colonne d’Ercole dei viaggi convenzionali.
Lo sguardo indugia su nevi candide, rocce ruvide, scrosci d’acqua, pareti verticali, e poi sulle attrezzature, così diverse da quelle degli alpinisti di oggi. I muscoli tesi dell’atleta, i suoi sguardi carichi di soddisfazione e ammirazione estatica, pieni di stupore per tanta bellezza, sono racchiusi in una sola vita ed in una sola mostra. Forti di questa consapevolezza, diventa ancor più emozionante passare accanto agli scarponi utilizzati dall’alpinista sul Cervino, per poi lasciar cadere l’occhio sul casco e la giacca che lo hanno accompagnato nella scalata al Pilone centrale del Monte Bianco.
Dietro alle vetrine, a due passi dalla nostra curiosità, richiamano l’attenzione anche i guanti e la macchina fotografica che hanno seguito Bonatti nelle scalate delle Aiguilles du Dru, nelle Alpi Graie, e la mitica macchina da scrivere, modello Everest, ribattezzata Everest-K2, regalo destinato a celebrare il suo ritorno incolume dall’impresa del K2, da allora usata sempre e mai più abbandonata.
Il K2, le Ande, il Karakorum, la Patagonia, l’Isola di Pasqua, il deserto del Namib in Namibia, le cascate di Murchison lungo il Nilo Bianco in Uganda, il Gruppo dell’Illampu nella Cordillera Real de Bolivia, la Grande barriera corallina dell’Australia Orientale, isole sperdute dell’Indonesia, e poi le nostre Alpi, fiere quanto aspre, sono solo alcuni dei luoghi portati in rassegna e raccontati dall’occhio dell’artista, che si pone davanti e dietro all’obiettivo per narrare la bellezza del mondo e lo stupore sempre nuovo di circa 30 anni dei suoi viaggi nell’incontaminata vastità del creato.
L’abilità dell’alpinista è affiancata alla sapiente tecnica del fotoreporter. Presto, nella sua carriera, infatti, Bonatti imparò, non solo a calzare ramponi e imbraghi, ma anche a raccontare i suoi viaggi a coloro che non avrebbero potuto seguirlo. Proprio in nome di questa esigenza di raccontare e raccontarsi, nel 1965, iniziò una fitta collaborazione con il settimanale Epoca, per conto del quale si era già recato in Siberia a realizzare un reportage.
La visita a questa mostra, il cui allestimento è attento e coinvolgente, negli spazi neutri e raccolti del padiglione fotografico di uno dei maggiori complessi culturali contemporanei della Capitale, è letteralmente trascinante.
Lo spettatore è chiamato, in pochi metri, a girare il mondo, attraversando numerose terre selvagge, per fare proprio l’ampio respiro di questi grandi spazi, provando il brivido di calarsi nell’anima libera dell’escursionista che risveglia la coscienza di un cittadino, avventuriero assopito, vocato agli agi della vita urbana e spesso autocostretto in spazi compressi e vite dal ritmo serrato.