C’è un immaginario collettivo piuttosto ben definito riguardo a Picasso. Immaginario che ha a che fare soprattutto con corpi e volti spezzettati e ricomposti in modo apparentemente bizzarro, con le immagini di persone che quasi non sono più persone, con gli spazi stravolti come se appartenessero a diverse dimensioni.
Ma è una visione limitata, perché Picasso non è stato solo cubismo.
Molto meno conosciuto è quel Picasso che plasmava la ceramica a Vallauris, in Costa Azzurra; che si faceva immortalare dai suoi amici fotografi con la capra Esmeralda; che si metteva in posa come Braccio di ferro per la macchina fotografica di André Villers. È proprio questo lato meno noto e sorprendentemente intimo del genio spagnolo che la mostra “Picasso. Il linguaggio delle idee”, visitabile fino al 25 gennaio al Museo Storico della Fanteria di Roma, mette al centro del suo percorso.

L’esposizione, curata dallo spagnolo Joan Abellò e prodotta da Navigare srl, si sviluppa su due assi principali. Il primo racconta la straordinaria varietà di tecniche che Picasso ha esplorato nel corso della sua lunga vita: dai lavori su carta alle ceramiche, dalle incisioni ai linoleum. Il secondo asse ci porta dentro la rete di amicizie, collaborazioni e affetti che hanno accompagnato e alimentato il percorso creativo dell’artista.
Un viaggio attraverso 50 anni di sperimentazione
Con oltre 100 opere provenienti da collezioni private e da prestigiosi musei spagnoli (Museo Picasso de A Coruña, Fundación Luis Seoane, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, Museu Picasso de Barcelona), l’esposizione romana abbraccia circa cinquant’anni della vita artistica di Picasso, fino agli ultimi anni in Costa Azzurra.
Una mostra raccolta ma densa, con una scelta di pezzi capaci di raccontare i diversi registri creativi del maestro.
La sezione dedicata alle ceramiche ripercorre il processo che portò Picasso a sdoganare per primo questa forma d’arte, considerata fino ad allora puro artigianato. I dieci esemplari esposti, realizzati negli anni ‘50 a Vallauris in collaborazione con l’atelier Madoura di Suzanne e Georges Ramié, mostrano come l’artista abbia saputo trasformare piatti, vasi e sculture in vere e proprie opere d’arte, decorandoli con quella libertà inventiva che lo ha sempre contraddistinto.
Tra le rarità esposte spiccano poi i venti linoleum del 1958-61, provenienti dalla Fundación Museo de Artes do Gravado di A Coruña. Una tecnica, la linoleografia, che Picasso scoprì e perfezionò proprio negli anni ‘50, sfruttando la duttilità di questo materiale per creare i manifesti per le sue mostre.
Maschere, saltimbanchi e balletti
Non mancano naturalmente i temi più noti del repertorio picassiano. La mostra dedica spazio significativo ad Arlecchino e ai saltimbanchi, figure che affascinarono Picasso fin dal periodo blu, quando frequentava i clown del circo Medrano a Montmartre.
In questi personaggi l’artista vedeva qualcosa di più profondo: l’estraniazione, la malinconia, la difficoltà di comunicare e relazionarsi con gli altri, i “normali”. Sono presenti due after work: l’acquaforte Les Saltimbanques au chien del 1905 e la collotipia a colori Arlequin et sa compagne del 1901, che raccontano quella delicata e variegata umanità di artisti di strada che popolava le sue visioni.
Particolarmente interessante è anche la sezione dedicata a “Le Tricorne”, il balletto di ispirazione spagnola per cui Picasso creò costumi e scenografie nel 1919. Emerge qui in modo particolare la sua straordinaria capacità di muoversi tra diversi linguaggi creativi, dall’arte plastica al teatro, sempre con quella vivace cromia mediterranea che scaturisce dalle radici iberiche. La mostra presenta 25 dei 33 fototipi originali che riproducono i soggetti disegnati e colorati a mano da Picasso.
Un’incursione nella quotidianità
La sezione fotografica è uno dei punti di forza della mostra. Le quindici immagini esposte ci restituiscono un Picasso diverso da quello dei libri d’arte. Lo vediamo nella sua villa “La Californie” a Cannes, circondato dalla famiglia, in momenti di vita quotidiana.
Con lui c’è spesso la celebre Esmeralda, la capra che diventò quasi un membro della famiglia. C’è anche un Picasso giocoso che si fa ritrarre nelle vesti di Popeye, dimostrando che il genio si nutre anche di divertimento e autoironia.
Questi scatti, realizzati tra il 1951 e il 1973, fino a pochi giorni prima della sua morte, testimoniano come l’insaziabile curiosità del maestro si traducesse in una continua sperimentazione di linguaggi e stili, ma anche in una vita vissuta con intensità e gioia di vivere.
“Picasso. Il linguaggio delle idee” è dunque molto più di una mostra su un grande artista: è un’occasione per scoprire l’uomo dietro il mito, le amicizie e gli affetti che lo hanno nutrito, le continue trasformazioni che non si è mai stancato di inseguire.