Al Teatro di Bellini di Napoli, lo scorso 11 dicembre, è andato in scena il secondo dei sei appuntamenti appuntamenti partenopei di White Rabbit Red Rabbit, l’esperimento sociale in forma di spettacolo dello scrittore iraniano Nassim Soleimanpour.
L’autore è un giovane artista che, dopo aver rifiutato di prestare il servizio militare nel suo paese, si è visto ritirare il passaporto provocando come conseguenza la sua totale impossibilità a spostarsi dall’Iran; in questa situazione limite e dolorosa Soleimanpour ha trovato la sua rivalsa scrivendo un copione che dal 2011 ha fatto il giro dei teatri del mondo.
Il gioco teatrale funziona così: l’attore, di volta in volta diverso, che accetta di recitare lo spettacolo White Rabbit Red Rabbit, conoscerà il testo solo una volta salito sul palco; da quel momento gli toccherà improvvisare senza la guida di nessun regista fisicamente presente ma seguendo solo le indicazioni dello stesso Nassim che gli parlerà dal testo.
Innanzitutto a salire sul palco stavolta è stato il napoletano Daniele Russo, attore ormai affermato e padrone del palcoscenico al punto che, pur lasciando scorgere un briciolo d’ansia, è riuscito a tenere testa al “regista invisibile” per tutto lo spettacolo, raggiungendo picchi di tale sicurezza e bravura recitativa da far dubitare i più sospettosi del fatto che stesse realmente improvvisando, ma, come lo spettatore più ingenui davanti a un trucco di Houdini, preferisco credere alla magia del talento e non ad una macchinazione ben orchestrata.
Altra cosa che si può dire è che White Rabbit Red Rabbit è un’opera difficile da digerire, che riflette sul tema dell’esclusione sociale e politica, della sopraffazione tra gli uomini e delle menzogne che ogni giorno la società di tutto il mondo si racconta.
Soleimanpour, ironizzando e scherzando sulla sua condizione di escluso, e godendo del privilegio di essere un deus ex machina presente e assente al contempo, lancia un messaggio forte d’accusa e allo stesso tempo intenerisce e crea speranza; perché quello che è riuscito ad ottenere col suo testo è proprio quello che il suo Stato gli ha vietato, ovvero viaggiare, attraverso lo spazio e attraverso il tempo, comunicare con persone che sono dall’altro capo del mondo, distanti anni da quando quelle parole sono uscite dalla sua penna e che proprio per questo riescono a legare in un escheriano gioco di riflessi il passato, il presente e il futuro.
L’unica, ultima, curiosità che posso rivelare (e lo so dopo attente indagini in rete) è che Nassim Soleimanpour invita durante il suo spettacolo il pubblico a fare foto e mandargliele per email insieme ad un commento su quanto hanno visto, o semplicemente insieme ad un saluto che arrivi dall’altra parte del mondo e credo che in questo appello dell’autore ci sia tutta la sua tenacia ammirevole a rimanere aggrappato a ciò che lo circonda dimostrando che a dispetto di una politica repressiva che lo vuole isolato e recluso, lui è libero, ma libero davvero, forse più di tanti altri uomini che un passaporto e la possibilità di spostarsi ce l’hanno.