La lingua di Petronio è infarcita di parole e locuzioni che non troviamo nel latino letterario: i testi dello stesso periodo che son giunti fino a noi, usano trattare gli aspetti della vita che costituiscono l’argomento del Satyricon con distacco, che prima di essere linguistico è intellettuale e morale, ha a che fare, cioè, come sempre, prima che con la lingua, con la mente e con il cuore, guardandosi bene dall’utilizzo di modi di dire dell’uso quotidiano o di particolari gruppi. Tenta allora, Francesco Piccolo, cercando analogie tra inevitabili, ricorrenti, poco consolatorie decadenze, di trovar la quadra tra un adattamento, portato all’uso contemporaneo, ed una completa riscrittura, non già di tutto il Satyricon, ma della parte sua più famosa e centrale, che tutti studiammo a scuola, che tutti abbiamo visto rifar da registi come Fellini, anche in anni che oggi non considereremmo decadenti (o decaduti) come l’oggi.
La riscrive per il teatro, dunque, Piccolo, quella famosa cena nell’opulenta domus dell’arricchito e volgare Trimalchione, e la mette in scena in anteprima qui al Teatro Grande di Pompei, per il Pompeii Theatrum Mundi, con la sostanziale complicità di Andrea De Rosa, che lo dirige, e di Simone Mannino che ne disegna scene e costumi. Ciò che a Petronio riesce bene, la caratterizzazione vivace e vera dei personaggi attraverso i diversi linguaggi, propri di ciascun ambito sociale, porta inevitabilmente a far ritrovare, allora, Trimalchione e gli altri liberti, a parlar la lingua dell’uso comune della gente ignorante e rozza, ben diversa da quella, rispettosa delle norme grammaticali e sintattiche, che è propria della lingua scritta.
La lingua di Trimalchione abusa di volgarismi, è infarcita di grecismi, quasi si vanta delle sgrammaticature, è la cultura dei ceti medio bassi, che è perfettamente adatta alla materia per cui è fatta, passando, con impressionante aderenza, dal luogo comune alla frase fatta, dallo stereotipo al pettegolezzo, dal proverbio al buon senso, dall’oroscopo al giudizio pseudoscientifico, descrivendo la particolare classe che l’adopera, sapendola decodificare, la comune mentalità, il carattere, i salti e le incoerenze logiche, i frequenti mutamenti d’indirizzo in base all’umore: la pancia di persone venute dal nulla, la cui visione del mondo e delle cose è fortemente infuenzata da un semplice metro di giudizio, il denaro, che si traduce, poi, in possibilità di ascesa sociale, cibo e sesso, in disperata imitazione dei ceti superiori, nei cui confronti soffre d’un incoercibile complesso d’inferiorità infarcito di disforia rancorosa e sorda. Il ridicolo, altra faccia del sublime, nasce appunto dal contrasto tra esibizione di ricchezza e inesistenza di cultura, vanagloria e credulità, grossolanità degli affetti prima ancora del modo d’esprimersi.
Così, vediamo ritrovarsi una sera, nella Roma della nostra contemporaneità, tre giovinotti un po’ annoiati (Flavio Francucci, Lorenzo Parrotto, Andrea Volpetti) col grave problema di come passare la serata, e sei già da subito nel particolare mondo ricreato da Piccolo: un modo di parlare ritmato, quasi musicale nel rincorrersi di fonemi, tic verbali, capriole e piroette, cadenze e scansioni ad alta frequenza che costituiscono la forma linguistica con cui è confezionata tutta la pièce, sintomo che è insieme avvisaglia e segnale della velocità che domina e impera, che esige e incanta, che conquista e prorompe. La velocità è alla base della nuova lingua comune, il neolatino con cui il grande impero comunica – ricordando i Barbari del Baricco di qualche anno fa – registro principe di quel nuovo che stenta ancora a nascere ma le cui caratteristiche già è possibile vedere, nella disperazione dei gesti, nell’infinito relativo del moto orizzontale del pensiero: semplificazione, superficialità, medietà.
Tuttavia, il “realismo” petroniano variamente si combinava e mescolava con aspetti del tutto “irrealistici”, rivelando gran raffinatezza, perché un’eccessivo realismo avrebbe prodotto l’effetto di cadere inevitabilmente nella stessa grettezza e grossolanità di pensiero che si voleva colpire; non limitandosi alla ripugnanza nei confronti del mondo dei liberti arricchiti, costruiva allora, Petronio, un vero e proprio capovolgimento del mondo elitario costituito dall’intellighenzia ufficiale, una deforme caricatura, che poco aveva a che fare, infine, con un ritratto realista della società, ma che si compiaceva, invece, d’una satira spietata e lucida di un intero universo in decadenza.
Poco, invece, su questo versante, può tentare Piccolo, troppo al di là d’ogni possibile caricatura è la realtà, tutto sa inevitabilmente di déjà-vu, infettando inevitabilmente lo sguardo di chi sta al di qua della quarta parete delle stessa non invidiabile emozione che si vive in palcoscenico, la noia, la noia come categoria dello spirito, come moraviana “insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà”.
Noia – impossibilità di cogliere concreta realtà dentro le cose – è il lunghissimo e dettagliato elenco degli squisiti piatti che allieteranno la serata: somiglia, quell’inusitato ma insipido e inodore elenco di variegate vivande che non vedremo mai in scena, alla cucina asettica insapore che vediamo in televisione, dagli chef ormai innalzati al rango d’artisti che sfornano preziosissime quanto effimere gemme sensoriali che non arrivano al nostro gusto o alle nostre narici. Più volte Trimalchione, per ravvivare la festa nei momenti in cui la tensione diminuisce, ricomincia da capo il suo proclama, il suo appello ai sensi, sempre più roboante, sempre più desolato. Noia è il vomito anoressico che il solo pensiero, il puro concetto di cibo evoca nella Ragazza Anoressica (Serena Mazzei), come la maggior parte dei partecipanti alla cena archetipo, più che personaggio, cliché al punto da non meritare nome: i tanti ristoranti, così apparentemente multiformi e diversi nella loro variegata provenienza, dal sushi al cinese, dall’indonesiano al giapponese, diventano improvvisamente etichette vuote, la fame ossessiva transita facilmente nel suo apparente opposto di sazietà nevrotica, fino al sintomo anancastico.
Noia son le parole ossessivamente tratte da canzoni che ritmicamente declama danzando la Donna delle Canzoni (Francesca Cutolo), in cui la tormentosa povertà dell’espressione, che è caratteristica di tutti i personaggi, che parlano per frasi fatte, luoghi comuni e formulazioni fintosapienzali si spinge fino al parossismo della sostituzione emotiva, con un meccanismo tanto vicino, a ben pensarci, al mondo dei social. Noia è l’angoscia puntigliosa e reproba della Signora Disperata (Alessandra Borgia), che cerca un senso apparente al suo eterno girovagare di festa in festa, sempre con la malinconica disperazione in cuore al pensiero d’aver perso la festa più bella, la Festa Maiuscola, la festa delle feste festose.
Noia è quella dell’Attrice Impegnata (Anna Redi), carica di libri e di proclami, che propugna con vigore un teatro lontano dai “familismi” delle “teatropoli”, e tuttavia il suo linguaggio risuona falso e condito d’artificiose preziosità accademiche quanto quelle degli altri. Noia è quella dell’Intellettuale (Michelangelo Dalisi). Nell’originale petroniano l’intellettuale maestro Agamemnon, che pure è colui che trascina alla cena con sé i tre malcapitati giovanotti, preferisce il silenzio, intervenendo solo per riprendere Trimalchione quando questi le dice veramente grosse. Per questo viene prima allontanato ed in seguito perdonato, a patto che stia zitto.
Qui invece l’Intellettuale parla anche lui, anzi straparla, al pari degli altri, esprimendo anch’egli stereotipi che, in fondo, tranquillizzano e anestetizzano, prima dichiarando l’obbligatorietà ossessiva delle scelte – tra Joyce e Proust, tra Beatles e Rolling Stones, tra Hegel e Schopenhauer – per poi ammettere d’aver firmato la petizione “a favore della procreazione assistita” e anche quella “contro”, per il taglio “dell’industria” e anche “contro”. In tutta evidenza anche la cultura non se la passa bene.
Noia è perfino quella espressa da Fortunata (Noemi Apuzzo), la padrona di casa, che in qualche modo ci spiazza: descritta da Petronio come degna compagna di Trimalchione, ancor più scaltra e cinica di lui, è invece pensata da Piccolo come l’esatto contrario del marito, vegana, contro ogni forma di inquinamento, preoccupata per il consumo dell’acqua e delle foreste, viene redarguita da Trimalchione che brutalmente le ricorda che tutto ciò che mangia, tutto ciò che possiede, è stato comprato con i soldi ricavati, invece, dal profitto senza scrupoli, dall’avvelenamento del pianeta, dall’esasperazione del divario tra ricchi e poveri. C’è un’evidente contraddizione, perciò, tra ciò in cui crede Fortunata e la sua vita, somigliando molto, ciò in cui ha fede, alla momentanea infatuazione di una signora annoiata.
Poi c’è naturalmente Trimalchione (Antonino Iuorio), perfetto stereotipo del grasso ignorante arricchito: infanzia “difficile” a far “servizi” al padrone e alla padrona, una iniziale disponibilità economica che investe in navi, e poi navi, e poi ancora navi. I soldi non servono, dice lui, per comprare case e vita agiata, sesso e buona cucina: il denaro è importante in sé, il denaro, anzi, è tutto, il resto – non ho mai letto un filosofo in vita mia – sono solo sciocchezze. Quando, per ravvivare la festa, Trimalchione inscena il suo funerale, immagini già che, al contrario del suo omonimo latino, questo nostro contemporaneo andrà fino in fondo, si taglierà sul serio le vene, come se le tagliò sul serio il suo creatore Petronio, in un vago impeto di pietà per se stesso o forse, non so, di paradossale, e apparentemente incongrua, riaffermazione di vitalità.
Andrea De Rosa serve la vicenda affondando a piene mani, come d’obbligo, nel parossismo degli scoperti simboli e delle patenti situazioni: immerge tutta la scena in una risplendente patina d’oro, come le case di certi malavitosi in cui anche i servizi igienici sono a 24 carati; qui lo è il water, che funge da trono del padrone di casa, posto all’interno di un cubicolo circondato da moschiere su tutti i lati. Riveste poi Trimalchione d’ampie toghe d’oro e seta e spoglia Fortunata d’ogni orpello, fino a farla accomodare nuda – come la verità – in primo piano, offerta in sacrificio agli occhi del mondo. Verso la fine, poi, poco prima dell’inscenata morte del padrone di casa, un fiume indefinito ed enorme di schiuma provenente da cubicolo-water invade il palcoscenico che fa da cornice all’orgia che di poco precede la fine, a metà tra gli scarichi otturati e maleodoranti del finale de La grande bouffe di Marco Ferreri e il blob amebico e incostintente della televisione di Enrico Grezzi.
E tutto, però, ha sapore di già visto, la ripetitività del ritmo che trasmette solo ovvietà stereotipate finisce per banalizzare pure il significato ultimo della pièce: come se, sforzandosi di descrivere l’horror vacui tipico della nostra contemporanea “decadenza”, finisse inevitabilmente per far coincidere realtà e affabulazione, non essendo più capace, il teatro, di offrire occasione di riflessione. Ciò che abbiamo visto in teatro non è già più, allora, riflesso della realtà, ha perso il carattere di ripensamento e (perfino) indicazione di una, anche confusa, via d’uscita, ma finisce per diventare pallida e incolore copia della realtà stessa, Trimalchione e le stereotipate figure incontrate sul palco è facilissimo trovarcele di fronte tali e quali nella vita corrente, in un cortocircuito che, inevitabilmente, sa di già visto, di già sperimentato, di già assaporato, fino ad assumere, la stessa rappresentazione, i caratteri del vuoto e del banale che ci si era prefissi di raccontare e stigmatizzare.