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L’ira di Medea al Teatro Marconi di Roma

L'opera di Euripide e Seneca nell'adattamento di Caterina Costantini

Pietro NIssi

Che umore funesto ha la mia padrona commenta! Si apre la scena con le parole di una presenza iconica del teatro, della recitazione, della vocalità profonda, qual’è carisma del teatro classico, Lorenza Guerrieri nelle vesti della nutrice. Una ampia tunica nera a mo’ di nuvola drappeggiata in plissé crepe fabric, il ‘mood’ dei costumi dello spettacolo, scelta di grande prestigio. Introduce alla vicenda come in una tragedia che si rispetti questa volta a metà strada tra Euripide e Seneca, quindi greco-romana. Giasone è partito alla conquista del Vello d’oro e ha tradito Medea con Creusa, la figlia del Re Creonte.

Medea originaria della Colchide eccola con il coro un duo di attrici sempre in sincrono qualunque cosa facciano o recitino o meglio intrepretino, Patrizia Tapparelli e Laura Mazzon e lei la protagonista in preda alle angosce e al male, ha ucciso il fratello Apsirto e ingannato il padre Eeta, per seguire Giasone a Corinto. Ne è tradita: con una eccelsa recitazione l’immensa Caterina Costantini condanna l’essere vile del suo uomo che per non essere ucciso dal re ne sposa la figlia.

E alla nutrice che riappare e le consiglia calma, prudenza e di fuggire prima che peggior sorte le tocchi, la sua padrona le replica una volta rimasta sola prima la vendetta e poi la fuga e in un girotondo, cifra della regia a firma della stessa protagonista eccolo l’incontro tra Creonte, ovvero Vincenzo Pellicanò, tunica di medesima stoffa, ruggine con variazioni in tinta, bordata oro, e Medea stessa scelta costumistica, ma in color piombo luminoso con calotta a brillanti luminescenti: è qui l’apice dell’ira della nostra leonessa in preda a un vindice furore. A colui che gli intima di partire, ella meditando rivalsa chiede una dimora nella medesima Corinto per sé e i suoi figli.

Una scena ipnotica l’incontro tra il suo incommensurabile amore e la nostra eroina svelano anche in Giasone o Marco Bianchi e stavolta il colore del drappeggio che lo veste e della calotta è il rosso scuro, il timore per l’incolumità di costei se non fuggirà, ma la sua maggior pena è quella dei figli. Eccolo il punto dove agire e in un crescendo tragico, sul palco un muro di coro, ora Eumenidi, ora Erinni, con la nostra eroina. In scena la si vede partorire il male donde ne è sorto il frutto dell’amore tra lui e lei. Strisciando, vero coupe de theatre dal sotto ventre di Medea, emerge Giasone in un ultimo amplesso ora coperto da un velo dalle due coreute a viso scoperto ovvero Eumenidi quasi foriere di un buon auspicio.

Non sarà tale e un affascinante nunzio o Davide Varone Kagel, anch’egli in nero, colore che unisce tutti i punti inequivocabilmente tenebrosi dell’epopea mitologica, tunica a brandelli, evoca che la nostra leonessa in preda all’ira tramite i figli per festeggiare le nozze di Giasone con Creusa, reca a lei delle vesti intrise di potentissimi veleni. Ed eccole di nuovo le attrici in duetto che sempre movimentano i cambi di situazioni rientrare a viso coperto, quindi Erinni e scoprire la nostra eroina che ha ormai ucciso i figli.

E gloriosa si staglia a centro scena e vindice, postura statuaria, grida “Odio non ho più nulla da offrirti”. Egli morto al dolore è ai suoi piedi e pur ella coperta da un velo cenere,  sempre dalle due che nel sincrono hanno creato uno spettacolo nello spettacolo, un movimento coreutico ritmico in un tragico evolversi della vicenda. Ne viene imbalsamata. Tutto è finito ma l’entusiasmo del pubblico, benché non numeroso, colma di plauso il grande evento, per nulla noioso, al contrario carico di ininterrotta malìa.

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