Quando comincia, Il cielo in una stanza sembra proprio ciò che è, che però non sembrerà più per tutta la durata delle spettacolo, per poi tornare ad esserlo di nuovo alla fine, nel ricordo di chi stava in platea, qui al Piccolo Bellini di Napoli. Quando comincia, la pièce di Punta Corsara sembra proporre un rito che sembra una via di mezzo tra religione e sciamaneria, con le cortine abbassate, le luci spente e quell’oggetto luminoso in mano agli officianti un barbarico esorcismo: una casa in miniatura, un plastico completo di luci, la casa che Carmelina e Ceraselo stanno per comprare.
Come un antico dio barbaro, per conquistar quella casa Ceraselo ha rinunciato alla mano destra – come Wotan all’occhio per ottenere il Walhalla dalle possenti mura – troncata in una pressa nella lontana Svizzera, ed ora con quel danaro, il prezzo d’una mano, può finalmente comprarsi la casa, per sé e per la giovane moglie.
Ma come per il Walhalla, le forti mura non basteranno a salvarlo dalla rovina: costruito sulla sabbia e sulla frode, crollerà il palazzo dopo trent’anni, mutando forma e sostanza, si adatteranno i superstiti suoi abitanti a condividerne con i piccioni spazi guadagnati grazie a infissi, scale, armadi, che ne ridisegnano la geografia.
Siamo ormai nel 1996, nel pieno del rinascimento bassoliniano della città, quarant’anni dopo quel 1956 della grande nevicata a Napoli, evento così raro da lasciare il segno nelle menti e negli annali, segnato da un altro Sindaco che fece la storia del secolo breve della città, Achille Lauro: comprendi allora come la vicenda dei poveri sopravvissuti del Tafagno, che vivono abbarbicati alla polvere e alle travi nella precarietà d’una tenue speranza di rivalsa, riguardi tutta la Città, condannata da sempre dalle sue stesse contraddizioni, dalle sue stesse ragioni, ad un eterno ritorno alla polvere e alla miseria dopo effimeri rinascite che sempre più la spingono in un’eterna sospensione.
Così, Alfredo Cafiero, uno dei coinquilini che porta già nel nome le stimmate d’una storia della Napoli novecentesca, dal Pasquale Cafiero del Caffè di De Andrè al Cafiero avvocato che scriveva i discorsi di Lauro, si incarica di contattare un giovane ma promettente avvocato romano, lo parta fin dentro e sopra il Tafagno, gli presenta gli altri precari inquilini dell’instabile tessuto connettivo che ormai è l’ex palazzo, dal cielo per soffitto, sito in via Miracolo a Milano: c’è ancora Carmelina, che avevamo intravisto all’inizio giovane sposa, ormai è vecchia, il marito è morto nel crollo, lasciandole in eredità, preziosa come una reliquia, in una teca di legno e cristallo, la mano morta che servì a comprare quella casa. Imbraccia il fucile, Carmelina, in perenne caccia dei piccioni, che odia, bestie immonde che insozzano con le loro acide feci ciò che resta del palazzo.
Poi c’è una madre e un figlio ormai adulto che vivono ancora insieme, testimonianza dell’impossibilità d’una vita autonoma e adulta, un inquilino che si fa chiamare Alce Nero, che ama invece i piccioni e apporta la nota imprevedibile della cultura aliena sfiorata e ibridata, concimata di rabbia e desiderio che fa crescere e prosperare il sincretismo religioso e culturale, un altro ancora che vive dall’epoca del crollo sepolto vivo in una camera sotterranea in cui è rimasto imprigionato per sempre, pena il definitivo crollo di ciò che resta di calcinacci e travi, suppellettili e armadiature che s’inerpicano pericolosamente: comunica con il mondo, il “Sotterraneo”, tramite la bocca di un water.
Scarti. Detriti che il crollo ha dimenticato sul posto, in attesa di prossimo imminente sgombero. Una comunità che nella trasparenza del simbolo riporta alla Napoli plurima che nella eccezionale molteplicità delle prospettive trova la sua inarrivabile ricchezza e la sua detestabile debolezza: spera, il ragionevole e benintenzionato Alfredo, che questa sia la volta buona, che si possa cioè, a giusta ragione, vincere l’annosa causa al costruttore e dare a tutti una casa nuova.
Sarà smentito dalla diversità di vedute all’interno dello stesso piccolo gruppo dei disperati, che trova il modo d’equamente dividersi, e a sorpresa, sul da farsi, coagulandosi, l’opposizione, intorno ad una proposta del tutto fuorviante e apparentemente incongrua di Alce Nero, che prevede l’uccisione del giovane avvocato – che intanto si è scoperto esser figlio del costruttore del palazzo – che, pur innocente, anzi probabilmente proprio per questo – fungerà da capro espiatorio, da vittima sacrificale intorno a cui potrà, forse, rinascere la speranza.
Frequenti flashback ci riportano agli anni del Laurismo, alla nevicata del ’56 che segnò anche la nascita del giovane avvocato, ai maneggi della politica democristiana che regalò Napoli a Lauro in cambio del suo tradimento di Guglielmo Giannini, che consentì alla stessa DC di far man bassa dei suoi populisti e continuare a governare senza colpo ferire e lasciando il Partito Comunista all’opposizione: la marea di cemento che murò per sempre il Vomero fu, allora, il prezzo pagato dalla politica in cambio del potere.
Una scrittura dai molteplici riferimenti, quella di Emanuele Valenti e Armando Pirozzi, che spesso trova proprio nell’ampia eterogeneità la ragion prima della validità espressiva del testo, riesce, grazie anche alla scena intrigante di Tiziano Fario, a rendere ragione, forse, della perenne stasi napoletana, della maledizione che da sempre grava sulle mille e mille masaniellate che si sono succedute nel corso della storia, perennemente “in bilico”, come questa commedia, tra alto e basso, destra e sinistra, luce e tenebre, ragione e superstizione, ateismo e fede.
La “contraddizione viene sviscerata”, lascia l’amaro in bocca l’impossibilità di prendere una qualsiasi decisione, perfino l’intervento del deus ex machina, Ceraselo che parla dall’aldilà servendosi delle voci degli altri protagonisti, alla fine non risolve, ci lascia interdetti, in un infinito ritorno al buio iniziale, alla compravendita di una casa: non c’è morale da ricavare, alla fine, se non l’esplicita, dichiarata, programmatica rinuncia proprio a qualunque morale: «Ma è possibile che qua ogni cosa si deve sempre risolvere come una farsa, è possibile che dobbiamo finire sempre alla De Filippo?».