Massimo Ranieri torna a occuparsi di Raffaele Viviani, e lo fa in grande stile. Con il progetto Teatro del Porto, ovvero intonazione, agilità (invidiabile), silhouette magra che plasma una sfilza di personaggi brulicanti, in una Napoli scrostata. Città non da cartolina, ma oltraggiata da contrasti e chiaroscuri, nobiltà e miseria, rimpianti e sfruttamento. Attraverso la canzone scenica lo spettacolo prende forma, sempre sulle note e le parole di Viviani – idolo del popolo, temuto dai politici, spesso intralciato e zittito. Ma destinato a divenire un ponte tra generazioni lontane.

Il napoletano antico vige sull’opera, non proprio il dialetto stretto, ma una lingua malleabile e scivolosa, che sprofonda e si innalza per farsi canto di gioia e ribellione. Una lingua del ventre e dell’intelletto, che parla di brezza marina e caffè concerto, miseria e rassegnazione attiva. Se la crudeltà non è contemplata da questa forma teatrale che sgombra la mente e la riempie al tempo stesso, vi è invece un pudore elegante e poi esplosivo, come i passi leggeri di Ranieri e del bravissimo Ernesto Lama – eccellente spalla.
Un lavoro corale che oscilla tra vari stati d’animo, fino al senso finale di rammarico per la trasformazione, obbligata, uguale attraverso le epoche, di un artista in emigrante, col triste miraggio di una fortuna mai a portata di mano. Al porto si torna col cuore malato e con la memoria persa in una città che pare lievitare, dove vivere è a tratti assurdo.