Che succede quando la poesia e l’estro barocco del Bardo s’incrociano con gli stilemi e le grevi battute dell’italica commedia sexy dei Buzzanca e delle Fenech? E che ha in comune l’Inghilterra della Grande Elisabetta con gli anni di piombo dell’Italia del Centrosinistra? Una possibile risposta è questa di Luciano Saltarelli, che fin dal titolo ibrida personaggi e situazioni: Quel gran pezzo della Desdemona, tragedia Sexy all’italiana è una commedia, presentata qui al Teatro Bellini di Napoli, per il Napoli Teatro Festival Italia, ispirata all’Otello di Shakespeare, ma ambientata nella Milano degli anni ‘70 del Novecento, e raccontata con le espressioni, il (cattivo) gusto, i colori e le immagini di quel particolare filone della Commedia all’italiana che andava di moda in quegli anni, secondo i più una degenerazione del glorioso genere che fu dei Sordi e dei Manfredi.
Moro è un giovanottone cresciuto a pane e ulivi in qualche posto laggiù al sud: sul finire degli anni sessanta lo troviamo – ha già indosso la tuta blu da operaio, non la lascerà per tutta la rappresentazione – alla stazioncina del paese, accompagnato dalla madre vedova. Come diceva una canzone di quegli anni, Moro sale sul treno del sud: sudore e mille valigie, occhi neri di gelosia, senza amore è più dura la fatica, ma la notte è un sogno sempre uguale. Va a Milano a lavorare, la madre nel salutarlo gli mette in valigia un paio di mutande rosse ricamate: dovrà donarle alla donna che amerà, come pegno d’amore… e qui già comprendi l’andazzo, perché, al di là delle belle proiezioni moderatamente animate che vivacizzano la bella scena disegnata da Lino Fiorito e le luci ammiccanti e nostalgiche di Pasquale Mari, puoi scordarti Cipro e l’orgoglio musulmano, il fazzoletto e il salice, Otello è solo un pretesto, lo scheletro, l’ossatura della storia che si racconta, rivestita dei luoghi, degli argomenti, della mentalità di quegli anni filtrati attraverso quella particolare cinematografia che fu la commedia scollacciata e sgangherata di quel periodo, dall’andamento incredibile e sconclusionato come le storie che in quegli anni – peraltro tragici – si raccontavano al cinema.
E il cinema è molto presente nella storia, inteso sia come luogo fisico dove le persone (che allora non vedevano i film nella solitudine delle loro case) celebravano il rito dello stare insieme (come in chiesa, altro luogo degno di citazione), sia nel senso di pellicola cinematografica: sono almeno due i film che rivivono, attraverso il disegno delle scene, con un tratto tra il fumetto e il disegno infantile, Il Padrino e Ultimo tango a Parigi, a ben pensarci tutti e due con Marlon Brando e del ‘72 – non può esser caso – l’anno stesso de Quel gran pezzo dell’Ubalda. Arriva a Milano, Moro, dal treno discendono uomini cupi che hanno in tasca la speranza ma in cuore sentono che questa nuova questa bella società questa nuova grande società non si farà: intanto però s’impiega volenteroso come operaio in una fabbrichetta di manichini e, in una notte buia e tempestosa, salva l’azienda dalle fiamme, guadagnandosi la riconoscenza del padrone, che lo nomina caporeparto.
Naturalmente – ci credereste? – il Cavaliere ha una figlia, Desdemona, giovane bella e ingenua, ed è giocoforza che i due s’innamorino, nonostante lui abbia perso il dono della favella in seguito allo sventato incendio. Evidentemente tutto questo genera livore e invidia da parte degli altri operai: in particolare Jago prende a odiare Moro per la promozione, Cassiolo, invece, per l’amore di Desdemona, di cui è innamorato. Poste queste premesse, la pièce scivola lesta e tranquilla sui binari previsti: il matrimonio, la gelosia, il fazzoletto, pardon, le mutande, il femminicidio. Il tono è piuttosto allegrotto e ridanciano, molte son le citazioni – vero e proprio nostalgico recupero – di quegli anni: oltre al cinema, la televisione (la notte dell’allunaggio che segna anche il sorgere dell’amore tra i due protagonisti), i fumetti delle sorelle Giussani, la moda per l’India e le culture psichedeliche, il femminismo, le lotte operaie, la febbre del sabato sera.
Il terrorismo, tuttavia, che pure incupì quegli anni drammatici e magnifici, è solo, sullo sfondo, un fastidioso boato di una lontana esplosione che più volte si ripete, scelta che può risultare comprensibile nell’ottica di una lettura fedele al modello dato: da quel tipo di film cui s’ispira il lavoro la cronaca (e la storia) erano ben lontane e così perfino la morte non è una cosa seria; se “Banfi non ha mai ucciso la Fenech” allora che ci si ritrovi tutti nell’al di là è del tutto normale, sarà possibile continuare a vivere come se nulla fosse successo, portandosi dietro i propri amori ma anche le proprie gelosie e invidie, in fondo Jago ha ordito la propria tela e ha causato tanti guai perché crede “in un dio crudel”, chiudendo con questa battuta (di Boito, in verità, non di Shakespeare) la rappresentazione in mezzo ai molti applausi. Forse, in verità, questo insistito spirito goliardico rappresenta la migliore qualità e insieme il peggior difetto della pièce, che, nell’ansia di piegare la vicenda del Bardo – solo ormai un accennato disegno della trama – al modello prescelto, dà fortemente l’impressione d’inesorabilmente condurre verso il trash, che caratterizzava quel cinema, pure la rappresentazione. Ottima, in ogni caso, la compagine attoriale, da Rebecca Furfaro a Giovanna Giuliani, da Luca Sangiovanni a Giampiero Schiano, allo stesso regista autore attore Luciano Saltarelli, tutti impegnati a impersonare più personaggi.