Offre, il Teatro Sannazzaro di Napoli, in questi giorni, l’occasione di rivisitare una delle più trascurate tappe dell’itinerario pirandelliano, Come tu mi vuoi, un punto di vista sull’essere donna tipico del periodo della maturità nel percorso drammaturgico dell’Autore: dopo la donna – soprattutto madre – dei primi lavori, atavicamente dipendente dall’uomo, santa e intangibile, e prima della donna degli ultimi drammi, trasfigurata in Grande Madre, in qualche modo consegnata all’eternità nella fissità del Mito, nel periodo di mezzo, che corrisponde – non certo per caso – a quella della sua relazione umana e professionale con Marta Abba, Luigi Pirandello scopre, in certo qual senso, il fascino erotico della Donna, amante esigente che sa apprezzare senza sensi di colpa il sesso, che non dipende più in alcun modo dal potere maschile, magari – si tratta pur sempre di Pirandello – mettendo in diretta contrapposizione questo modello di donna con un altro, più rassicurante, più conformista, più borghese, quello della moglie devota.
E come al solito ci stupisce, compiendo un pindarico viaggio che, partendo da un mero dato di cronaca spicciola – il fondato dubbio sull’identità di una persona – giunge felicissimamente alla generalità dell’incertezza che ognuno dovrebbe nutrire sulla propria identità. Ma come! – verrebbe da dire – non posso aver dubbi sulla mia identità, io so perfettamente chi sono, ricordo benissimo di essere io! Ma è proprio qui il nocciolo del problema: si può esser certi della memoria? Da efficace grimaldello d’impostura, la memoria diventa allora strumento di ricerca della propria identità, potente risorsa d’insperate e fresche energie grazie a cui scardinare il vecchio per far posto – finalmente! – al nuovo.
La mostruosa abilità del tessitore di trame, ancora una volta qui dimostrata, sta nel trasformare quel che è un vecchio strumento del mestiere del teatrante, una storia da romanzetto d’appendice condito di pruriginose curiosità e d’inverecondi retropensieri in drammatico specchio in cui riflettere le proprie sconfortanti debolezze, il proprio scoprirsi inaspettatamente fragili, vittime – tutti – di un comune sentire fatto di confortanti e comode menzogne. In quell’anno, poi, che apriva il decennio dei turbinosi anni ’30, tutti gli italiani, come spesso succede al popolo nostro, si ritrovarono divisi in due fazioni, due partiti fieramente contrapposti intorno a un caso di cronaca che aveva infiammato animi e coscienze: la stampa aveva battezzato quel caso col nome fatidico dello “smemorato di Collegno”, dal paese sede del manicomio dov’era ricoverata una persona affetta da amnesia, in cui la vedova di un professore di una certa fama, Guido Canella, scomparso qualche anno prima, credette di riconoscere il marito.
Se i mass media dell’epoca aizzarono la divisione tra le opposte tifoserie, immaginiamo solo cosa sarebbe successo oggi, in un caso del genere: ma tant’è, in fondo non sono molto diversi, quegli anni ribollenti e drammatici, dai nostri, probabilmente altrettanto contraddittori e frammentati. In realtà, comunque, e a scanso d’equivoci, Pirandello negò sempre di essersi ispirato a quel fatto di cronaca e, in verità, come spesso accade quando si ha a che fare col suo umorismo, il tema dell’Ignota è solo lo spunto, il passe-partout che apre porte sbarrate, la miccia che serve per far esplodere il vero tema, che è quello dell’incertezza, più generale, sull’identità di ognuno, con cui fare i conti.
Scritta probabilmente durante il soggiorno berlinese, un volontario esilio durato un paio d’anni, dal settembre del 1928 al febbraio del 1930, fa parte di una serie di opere che molto risentono dell’espressionismo tedesco di quegli anni, in cui Pirandello ritrovò molti dei suoi motivi: la vivacità culturale della breve stagione della Repubblica di Weimar lo contagiò, a contatto con i protagonisti di quella temperie spirituale e ideale, da Erwin Piscator a Max Reinhardt, da Leopold Jessner ad Alfred Döblin, da Walter Gropius a Otto Dix a George Grosz. Risente così fortemente, la pièce, dei rapporti non scontati tra l’Uomo di Caos e certa cultura del tempo suo, più Die Brücke che Les Fauves – i legami di Pirandello, che scrisse la sua tesi in tedesco, con la Germania furono sempre intensi – e più con l’espressione figurativa del movimento che con quella letteraria.
Così, come sempre, si parte dal dato di realtà, banale, anche volgare, sempre ordinario, per poi arrivare – e spesso si può individuare il punto esatto in cui ciò avviene – a un completo stravolgimento del piano narrativo, che perde ogni realismo, logica, naturalismo, per approdare, attraverso ironia che è sarcasmo e grottesco, ad una relativizzazione della realtà, che diventa apparenza, perde di obiettività fino a dare origine a diverse e multiple interpretazioni, tutte vere, tutte farlocche. Il che è esattamente quello che facevano, in anni vicini a quelli di Pirandello, Otto Dix o Georg Grostz, attraverso la raffigurazione di immagini quotidiane ma con colori innaturali, forme semplificate, annullamento della prospettiva: la realtà non è come la si vede ma come la si sente, il relativismo fatto regola e poetica, anche perché spesso il dato di realtà rischia di essere fuorviante, non sempre ciò che appare bianco lo è effettivamente, e in nero, poi, non è sempre così oscuro come appare.
Così portò a termine, in quel periodo così fecondo e stimolante, Lazarus, rappresentato a Londra nel 1929, Questa sera si recita a soggetto, dato in tedesco a Königsberg nel gennaio del 1930, lavorando poi a drammi come O di uno o di nessuno e I giganti della montagna: proprio da una costola di quest’ultimo fu tratto questo nostro Come tu mi vuoi, apologo all’interno della più ampia affabulazione in cui fu sostituita dalla Favola del figlio cambiato. E proprio con la prima milanese, per Marta Abba, il 18 febbraio del 1930, si concluse quell’esperienza berlinese, tornando in Italia appena in tempo per non vedere il crollo di quella irripetibile parabola culturale, caduta sotto la tempesta suscitata dal piccolo caporale austriaco.
E proprio a Berlino – non una fortuita coincidenza, dunque – è ambientata la commedia, perlomeno la sua prima parte, caso unico in tutto il teatro pirandelliano, spazio della trasgressione e dell’ambiguità, fuori dal provincialismo italico dove sarebbe stato irrealistico rappresentare una storia di una donna che è puro oggetto di godimento sessuale, che non ha più neanche un nome: l’Ignota è carne e sangue, senza passato e futuro, in una sorta di oggettivazione sessuale ante litteram in cui la perdita dell’identità è l’inevitabile conseguenza ultima della deumanizzazione progressiva innescata da una percezione del canone estetico come reale, normativo, esigente, tirannico.
Costruisce, allora, Luca De Fusco, un ambiente asfittico e piuttosto oscuro – grazie alle matite di Marta Crisolini Malatesta, che firma anche i costumi – l’opaco antracite della simmetrica e spigolosa scatola scenica è rotto solo da due enormi specchi, uno per parte a limitare la zona centrale, che rimandano all’occhio di chi guarda, in un interessante e sorprendente trompe-l’œil, scale farlocche che altro non sono che il riflesso di una serie di mobiletti bassi che fungono, di volta in volta, da tavolini, divanetti: elementi compositivi, dunque, cangianti e mutevoli che descrivono, nel loro insieme, nel loro potenziale, non scontato divenire, una realtà incerta, dubbiosa, come del resto gli umani che quell’ambiente abitano e vivono.
La scena non cambia sostanzialmente nel passaggio dalla prima parte – lo sfarzo bizzarro della casa berlinese di Salter – alla seconda – la sala a pianterreno di Villa Pieri a Udine – in omaggio ad una messa in scena che rifugge ogni naturalismo per approdare felicemente ad una sostanziale – anche se a tratti declamata – presa di distanza, fobia e straniamento emotivo, necessario distanziamento dall’enfasi, che si palesa e si determina con decisione fin da subito. E a questo contribuisce di certo anche il velario che chiude sul davanti la scena, gelidamente ostruendo, pur nella sua sottile trasparenza, la quarta parete, volontariamente, caparbiamente raggelando ogni emozione: serve, quello schermo frapposto allo sguardo diretto dello spettatore, alla proiezione di filmati su di esso, in omaggio, certo, al mezzo cinematografico – da questa pièce pirandelliana fu tratto, in un libero adattamento, nel 1932, il film As You Desire Me, diretto da George Fitzmaurice, protagonista Greta Garbo – e al gioco di specchi del finale della Signora di Shanghai, cui De Fusco dichiara d’ispirarsi.
E l’idea sarebbe anche buona, perché la verità è sempre lontana, fuori dalla portata di chi guarda, la maschera sempre in agguato, è lo sguardo dell’altro che mi definisce e che, in un certo senso, mi crea: o, meglio, crea un mio io alienato, frantumato, scisso: Lucia non è Lucia ma l’Ignota, l’Ignota è Lucia ma non lo è, diventa Lucia solo quando lo vuole, l’Ignota s’incarna in Lucia quando lo sguardo degli altri la vede come tale, perché Lucia è, in fondo, l’oggetto incarnato dell’Ignota, ciò che diventa l’Ignota nella mente degli altri. Perché è nella mente di ognuno che avviene lo scambio, lo switch over che permette il passaggio, la pasqua, il cambiamento tra morte e vita: lo straniamento dell’Ignota, italiana in terra estranea, ignara delle sue sue radici, esprime lo straniamento e la perdita d’identità di tutta l’Europa – allora, nei ruggenti anni ’30, per effetto della guerra, oggi, nella nostra sfilacciata contemporaneità, per effetto delle guerre sovraniste – ignota ormai a se stessa.
Lucia è il ritrovarsi, in fondo, padrona delle proprie idealità perdute, in contrapposizione agli eterni fascismi e nazismi dell’Ignota, l’uno nessuno e centomila si colora del riverbero e del riflesso amaro e fallace dei mille specchi deformanti del Funhouse mirrors della Signora di Shanghai, wellesiano incrocio tra nullificazione sanguinosa e lancinante da una parte e serpeggiante, incombente darwinismo sociale dall’altra. L’impossibilità di una qualsiasi redenzione risiede, allora, nella sostanziale vacuità dell’umano, destinata a frantumarsi, frangersi, immolarsi incondizionatamente rinunciando a sé, in un perdurante racket emozionale in cui il compiacimi! transazionale consiste nel nutrimento affettivo condizionato alla rinuncia definitiva di sé e del proprio essere: perché essere è niente! Essere è farsi.
Unica verità è nella maschera del divenire, sganciata da qualunque oggettività: costruita su misura, così, come tu mi vuoi. E tuttavia, se pur questo è vero, è l’(ab)uso delle proiezioni a risultare alla fine inutilmente intensivo, pesantemente barocco: intendiamoci, in alcune circostanze è sicuramente efficace, come per esempio alla fine della prima parte, mentre ancora l’Ignota veste l’abito nero – uno dei costumi splendidi e strani delle danze – si proietta sul boccascena l’immagine, potente come un fantasma o un presagio, di Lucia con il chiarissimo abito verde acqua – giovanile e acconciata alla moda di prima della grande guerra – ma risulta invece del tutto inutile utilizzarlo doppiando vanamente – e malamente – la scena, costringendo anzi l’attrice a ripetere esattamente, nel gesto e nei tempi, la sua interpretazione, pena vistosi asincroni che, nonostante ogni attenzione, si ripetono inevitabilmente più e più volte, e senza alcun valido motivo, senza nessuna buona ragione che giustifichi questo sovraccarico d’immagini e di ridondanti gestualità, come se ripetere, ingigantito, il gesto e l’atteggiamento, potesse intensificarlo e non, piuttosto, impoverirlo, rischiare di renderlo più evanescente, vuoto, inutile.
Del resto, De Fusco ci ha abituato, nel tempo, a questo uso massiccio dei filmati, che finisce per stancare e sterilmente appesantire la fruizione di uno spettacolo per altri versi godibilissimo e anche con ottime intuizioni registiche che naufragano e affogano tuttavia in questo gran mare di inopportune amplificazioni, repliche, geminazioni del gesto scenico. Rischia di perdersi perfino l’ottima prestazione degli attori, dal Salter determinato e appassionato di Francesco Biscione alla materna zia Lena di Alessandra Costanzo all’irresoluto Bruno Pieri di Pierluigi Corallo, per arrivare, infine, ad una splendente, nel buio denso e rappreso del suo personaggio, Lucia Lavia, in un cimento da grande attrice, protagonista di una tesissima interpretazione che non conosce soste, tutta giocata sul ritmo silenzioso ma pervasivo di una danza senza fine, dall’oscuro oggetto del desiderio berlinese, sottolineato dallo splendido abito nero, all’abito chiaro della perduta innocenza borghese della villa friulana.
È l’alternarsi di diversi atteggiamenti del corpo e della voce dell’attrice, che definisce il difforme sentire della stessa donna, la silenziosa disperazione che la spinge a cercare una diversa, se pur consapevolmente falsa, identità, un passaggio vissuto con leggerezza drammatica dal Cigno Nero splendido e buio al Cigno Bianco innocente e terso, cercando un impossibile compromesso tra Odile e Odette, rimanendo permanentemente astratta e distante nella sua sessualità che sa – sempre – d’intangibile e inviolabile sacralità, un improvvido desiderio d’onestà ricercata attraverso una sconsiderata bugia che, alla fine, s’infrange comunque contro le trame e i nondetti degli altri, scoprendo che, più spesso di quanto possiamo supporre, l’apparenza inganna le nostre menti e i nostri sensi. Così, risulta sorprendentemente simile, il grido finale a Berlino!, a Berlino!, all’invocazione delle Tre sorelle cechoviane: ma se a Mosca!, a Mosca! esprimeva un irraggiungibile e allucinato desiderio d’impossibile cambiamento palingenetico, è al contrario dettata da un supremo atto di coraggio e riconquistata cognizione questa esclamazione, liberatorio e finalmente definitivo moto d’allegrezza verso l’esplicita accettazione e ricomposizione di sé e del proprio io.