Se mai dovessimo individuare un tema, un marker interpretativo che, in qualche modo e piuttosto arbitrariamente, valesse a individuare una prevalente tematica di una serata da concerto, potremmo, pur richiedendo tutta la benevola comprensione per la doverosa approssimazione che inevitabilmente derivi da una simile semplificazione, ricorrere al concetto, svagato e inquieto, della crisi della Sinfonia, che, partita dalla metà del secolo romantico, arriva ancora fino a noi. È Yutaka Sado a guidarci in questo percorso accidentato e frammentato, che s’è incarnato ieri sera nel Concerto bello e significativo cui abbiamo assistito al Teatro San Carlo di Napoli.
Bello perché le musiche scelte, in definitiva così diverse tra loro, e tuttavia più simili di quanto i loro autori volessero farle sembrare, delineano, nel loro insieme, un vero e proprio ritratto, di grande valore estetico, della nostra Contemporaneità così discussa e controversa, in cui finalmente perdersi e trovar pace; significativo perché ci mostra, come meglio non si potrebbe – in modo, diremmo, quasi didattico – il sofferto passaggio tra il secolo romantico e il secolo breve, tra il sentir pacato e profondo e il sentir rapido ed esteso, in un non lineare percorso fatto d’insistenti e insistite tracce, disegni illuminati e illuminanti, sentieri poco battuti, segnali incompresi e talora incomprensibili, avventura del vivere umano ancora, per tanti versi, non giunta a compimento ai nostri giorni.
Occasione, dunque, questo Concerto, di toccar con mano e constatare tutti i variegati obliqui sintomi d’un male oscuro che, pure, ha prodotto, gioielli d’incommensurabile bellezza, in un contesto d’acceso confronto, di divergenti concezioni musicali, di palesi differenziazioni. Probabilmente Yutaka Sado è il musicista adatto a guidarci in questo intricato labirinto: giapponese, un dei migliori direttori d’orchestra, se non il maggior vivente, di quel Paese, come taluni ritengono, allievo di Bernstein e Ozawa, tutt’oggi conserva l’amore per la Musica tutta, per cui, pur vivendo a Vienna dal 2015, Direttore Musicale della prestigiosa Tonkünstler Orchestra, trovava fino a poco tempo addietro il tempo e il modo di presentare uno spettacolo sulla televisione giapponese ogni domenica mattina, che riguardava principalmente la musica classica, presentando però anche artisti attivi in altri generi, cantanti jazz, musicisti rock e musicisti folk giapponesi, a conferma dell’essere, il Maestro, globetrotter musicale, cosmopolita che si sente a casa in molte parti del mondo, considerato una vera e propria star in molte di esse.
La personalità musicale che ci vuole, allora, per condurci attraverso un percorso spesso complesso e tortuoso, che si compiace, talora, di contaminazioni, che spesso miscela antico e moderno, musica “alta” e musica “bassa”, qualunque cosa possano voler dire queste espressioni. Così, l’inseguito sogno di Johannes Brahms, del Maestro, cioè, dotato di maggior e più caparbio senso della storia e della perfetta coscienza del sé, nei confronti della stessa storia, di rinverdire una tradizione che molti sentivano, alla metà del secolo, ormai esaurita con l’esperienza sinfonica di Robert Schumann, fu costretto per molto tempo a indugiare, a fronte dell’obiettiva difficoltà d’un compito così improbo, e le sue prime Sinfonie, la Prima e Seconda, avrebbero dovuto aspettare il 1876-77 per venire alla luce. Pochi anni dopo, nel 1879, l’università di Breslavia seguì a strada già percorsa da Cambridge e assegnò a Brahms una laurea honoris causae in quanto “artis musicae severioris in Germania nunc princeps”.
Brahms ringraziò i dignitari della Facoltà di Filosofia di Breslavia con la sua Akademische Festouvertüre op. 80, mentre quasi contemporaneamente componeva la sua Tragische Ouvertüre, op. 81, per cui lui stesso ebbe a dire che mentre “l’una ride, l’altra piange”. Il ricco materiale tematico dell’ouverture è tratto da una serie di noti brani goliardici intrecciati in un insieme contrappuntistico. Così la successione di Wir hatten gebaut ein stattliches Haus, Hört, ich sing das Lied der Lieder, Was kommt dort von der Höh, per concludere con la canzone delle canzoni studentesche, Gaudeamus igitur!, racconta una storia di vita studentesca che riempie di divertimento allegro che muove al riso perfino gli austeri frequentatori di concerti.
Tuttavia, attenti, è facile scorgere in questo susseguirsi di quattro temi musicali l’eterna struttura della forma sinfonica che torna, come una benevola ossessione: una piccola sinfonia, in definitiva, di cui Sado ha dato, com’è naturale, una lettura brillante, in perfetta linea con il senso di giovanile spensieratezza che la caratterizza. Sbaglierebbe, però, chi pensasse ad una interpretazione di comodo, ovvia nella sua scontata banalità: basti osservare il Maestro mentre dirige, con leggeri colpi, in punta di bacchetta, potremmo dire, che disegnano merletti elaborati nell’aria, improvvisi trasalimenti, sorrisi e malinconie dell’età adulta, ricordi, ormai, che sfociano nell’accorato, trasmutato, feroce, struggente nella sua evocazione d’indecorosa e perduta giovinezza, Gaedeamus igitur!, che chiude, come una risata beffarda, il brano.
Non dirige sempre con la bacchetta, tuttavia, il Maestro Sado, dipende, in tutta evidenza, dalle esigenze interpretative che l’arte sua sente di dover dare a quel particolare brano: così, accingendosi a dirigere il secondo, impegnativo brano del programma, lascia la bacchetta e dirige a mani nude, e la differenza si sente, è evidente la stessa diversità di caratura e temperatura cromatica che magari si può notare, sul piano più strettamente visivo, tra il Tiziano che dipinge in punta di pennello e il Tiziano, soprattutto maturo, che dipinge con le mani: l’espressionismo richiesto della partitura, il Concerto per quartetto d’archi e orchestra di Arnold Schönberg, trova, anche nella modalità di conduzione e, potremmo dire, atteggiamento fisico del direttore, la sua più consona manifestazione.
Come si sa, il brano è libera trascrizione del Concerto grosso op. 6 n. 7 di Händel, metamorfosi ultima della stessa forma, approdo in cui «la più piccola unità strutturale della musica è la proposizione, una specie di molecola musicale formata da alcuni fattori musicali compiuti, dotata di una certa compiutezza e adatta a combinarsi con altre unità similari». Schönberg sembra oggi vittima da una sorta di stupida e miope damnatio memoriæ che pare voler eliminare la sua musica da tutti i programmi da concerto: a maggior ragione è da stimare chi ha voluto inserire questa partitura nella serata del San Carlo, restituendo il giusto valore, anche storico, all’autore viennese. Tra l’altro, l’operazione compiuta dal padre della dodecafonica in questo brano è particolarmente interessante, perché nella rielaborazione del brano barocco sfrutta contrappuntisticamente, com’è ovvio, tutte le possibilità della moderna orchestra, utilizzando anche il trombone, il pianoforte, l’arpa e la percussione, lasciando, come nell’originale, intatta la contrapposizione dell’orchestra al quartetto d’archi solista, ma (ri)creando le sonorità, anche del quartetto, in modo ovviamente molto originale.
Protagonista dell’esecuzione, dunque, il Quartetto d’archi del Teatro di San Carlo (Cecilia Laca, violino; Luigi Buonuomo, violino; Antonio Bossone, viola; Luca Signorini, violoncello), che affronta la prova dando prova di grande duttilità e piglio espressivo, specie nell’esecuzione della cadenza del secondo tempo, l’Allegro dell’originale händeliano, in cui il dialogo con l’orchestra si fa più serrato, assumendo toni anche virtuosistici e, poi, nel Largo successivo, dal tono più disteso e intimista, in cui il Quartetto ha modo di infittire la densità del linguaggio polifonico, riuscendo a disegnare diafane eufonie e delicatissime consonanze. Alla fine, a conclusione della prima parte, molto applaudita, il Quartetto concede il bis, il terzo movimento, Prestissimo, del Quartetto per archi in mi minore di Giuseppe Verdi che, inevitabilmente, ci riporta alla principale mission di questo Teatro; tra l’altro questo brano, così unico nell’opera del Maestro, fu scritto proprio a Napoli ed eseguito dalle prime parti del San Carlo nel 1873.
La seconda parte affronta l’ancora, per molti versi, incompreso genio di Anton Bruckner, più vecchio di Brahms e certo dotato di minore consapevolezza storica, che tuttavia riuscì nell’impresa di scrivere una pagina che si coprì, certo, d’altrettanta gloria, soffrendo dell’isolamento e della sostanziale condanna dei contemporanei, tuttavia capace di offrire una qualche diversa indicazione per un’alternativa avventura per la forma sinfonica che molti ritenevano già morta e sepolta. Delle undici Sinfonie scritte dal Maestro, la Quarta in mi bemolle maggiore, oltre ad essere, insieme alla Settima, la più eseguita, è l’unica a portare un titolo descrittivo voluto dall’Autore, quel Romantische che continua tutt’oggi a far discutere, perché inevitabilmente un titolo del genere tende a riportare al concetto di musica a programma, cui, invece, l’Autore era del tutto estraneo, pur avendo stilato una serie di didascalie che evocano un mondo medievale fatto di cavalieri e castelli, caccia alla lepre e cavalcate nelle foreste, il mondo – che pure l’autore tanto amava – di Lohengrin e Novalis.
La tormentata composizione della partitura, tra tagli, ricuciture e rifacimenti vide la luce nel 1878, nel pieno della temperie tra i sostenitori di Bruckner (e indirettamente di Wagner) e quelli di Brahms, tra “musica assoluta” e “musica a programma”. Yutaka Sado, grazie anche all’Orchestra del Teatro San Carlo in ottima serata (ma ormai serate così son praticamente la regola), riesce a restituirci, pieno, il senso di questa vigorosa architettura, spesso simile ad una poderosa cattedrale nella bruma, altre ad una fatidica enorme creatura che con agile, energica prontezza si muove in un mondo di giganti.
Così, nel primo movimento, è magnifico come Sado riesca a soffermarsi sul richiamo del corno che s’apre sull’inquieto e pensoso tremolo degli archi e a farci pienamente assaporare le frasi accorate delle viole che tracciano meteore sul disegno insistito e vago dei violini, preparando l’imperio degli ottoni; poi, la Marcia funebre che si apre a romantici ricordi schubertiani, giustificando, anche nella direzione di Sado – che con estrema semplicità e chiarezza riesce a delineare i due motivi che la animano – l’appellativo di Romantische; a seguire il celebre Jagdscherzo, che, tra echi e reminiscenze gotiche, nel dialogar d’archi e ottoni segue un sicuro percorso che da un iniziale pianissimo sale in un irresistibile crescendo fino al fortissimo che, probabilmente, segna il culmine della complessa partitura; il Finale, solenne e movimentato, conclude la Sinfonia tra intense esortazioni degli ottoni, a chiudere, tra gli insistiti applausi del pubblico, una serata musicale sicuramente tra le migliori degli ultimi tempi.